Lo spazio oscura il tempo | ||
I paesaggi della tragedia | ||
Angelo Signorelli | ||
Béla Tarr è uno dei pochi, pochissimi autori, che riesce a pensare l'essere del presente e a riflettere sulla storia, quella che accomuna gli individui con le cose, i sentimenti con i paesaggi, la trascendenza con la materia. Il suo cinema è un microscopio che osserva i tessuti dell'apparenza, per leggervi una verità che non appartiene alla cosa in sé, ma sta tutta nel rapporto tra il soggetto e il mondo che gli sta attorno, nelle attuali, drammatiche, reciprocamente invasive, relazioni che sono costretti entrambi a vivere, per una necessità che è inutile spiegare, che va presa come un dato di fatto, che va vista come una sorta di condizione dalla quale è inutile cercare di sfuggire. L'evidenza di tutto ciò si realizza soprattutto sul piano estetico; l'ineluttabilità costringe l'uomo, l'autore, il regista ad interrogarsi, su di sé e l'altro, ma non rimanendo all'esterno, da una posizione di superiorità, oggettiva o intellettuale che sia. Béla Tarr partecipa alle espressioni del reale, in un rapporto di coabitazione, di permanenza, di condivisione dal basso, sostando su un'”origine” che è parte dello stato del mondo, costantemente affacciato sul vuoto, su un'oscurità che incombe come minaccia alla sopravvivenza. Lì, in quella zona indefinita, la realtà, quella che comprende i viventi e le cose, muove i suoi passi; lì la mente. l'occhio devono registrare i segnali dell' essente, quelli che la storia ha depositato, sovrapponendo strati di degrado, concrezioni di ripetute e caricaturali sconfitte. Quell'origine è in realtà un punto d'arrivo che si ripete inesorabile, un destino tante volte riscritto, una caduta inarrestabile, uno stato che ogni volta ripropone un blocco, una barriera, un'impossibilità ad uscire; è la fatica, infine, di muoversi senza che nulla cambi, per ritrovarsi ancora una volta con le mani vuote, e lo sguardo smarrito, tragicamente e assurdamente persi in un presente accartocciato. È il nero che sovente chiude l'obbiettivo, come un inchiostro che si spande sulla pagina ed impedisce di continuare a scrivere, è la luce -tanta luce artificiale -che cerca di scalfire la notte e ad essa oppone variazioni di grigi che dipingono, con un' evidenza atroce, ma anche con un sentimento d'umanità straziante, le manovre dell'agonia. Ma non c'è, nelle immagini di Tarr, ricorso esplicito alla prosopopea della metafora, che invece scorre sotterranea come in una cavità carsica; semplicemente, c'è il dato di fatto, che si apre piuttosto al significato, ma come qualcosa che gli appartiene, che è dentro al suo modo d'essere, a ciò che è divenuto, alla storia che ospita, alla geografia di cui è parte. Nello spazio si gioca la partita del significato. Nei luoghi, che giacciono fermi e immutabili, colmi di barriere, invisibili ma che si sentono, che ci sono anche se nessuno riesce a vederle, oltre le quali non è possibile andare, che nessuno ha in mente di superare, fermato prima ancora dalla propria viltà, dalla propria insufficienza umana, come se la libertà fosse un rischio troppo pericoloso, una voragine paralizzante. E quando il giovane protagonista di Le armonie di Werckmeister tenta la fuga lungo i binari del treno, illudendosi che seguendo una strada già tracciata possa lasciarsi alle spalle l'incubo che ha vissuto, si trova di fronte, dopo una breve corsa tanto affannosa quanto inutile, un elicottero che sospeso a poca distanza non gli lascia scampo, come il predatore con la vittima. Prima con ampie evoluzioni gli fa capire chi è il più forte, che esso può giocare con le sue illusioni perché ormai lo ha definitivamente in pugno. La campagna si chiude su di lui, un cielo bianco e freddo gli si abbatte addosso. Finisce in ospedale, inebetito e taciturno. con addosso una tunichetta bianca, il volto tumefatto; seduto sul letto in modo scomposto, guarda in direzione della macchina da presa, ma sembra assente, bloccato da un potere indefinito, dal terrore, dall' esaurimento delle forze per aver partecipato ad avvenimenti troppo difficili perché uno come lui ci potesse capire qualcosa. Dove si trova adesso ogni cosa è al suo posto, l'aria è asettica, le lenzuola e il mobilio sono perfettamente, eccessivamente bianchi e puliti, le superfici lucide, come se tutto il disordine fosse ormai un ricordo lontano. In realtà questo decor è una prigione ed egli è ormai un malato mentale, lasciato solo nel suo silenzio inoffensivo. Per Béla Tarr lo spazio è una vera ossessione; in primo luogo come scelta di luoghi che avvolgono l'azione, che delimitano la messa in scena. Luoghi circoscritti, in numero limitato, fanno da contenitori alle immagini del regista ungherese. Il villaggio di Le armonie di Werckmeister, con le strade che conducono diritte alla piazza centrale; quello di Perdizione, l'enorme edificio di Sátántangó il piccolo asfissiante appartamento di Nido familiare, l'abitazione di Rapporti prefabbricati, la casa labirinto di Almanacco d'autunno. E dentro i luoghi più ampi, altri ancora più ristretti dove andare e rinchiudersi: il bar, l'appartamento, la camera, per rintanarsi, per patire un senso di solitudine che penetra fin dentro le ossa. Non esistono nel cinema di Tarr, luoghi aperti dove si prova un senso di respiro, quello che ti riempie i polmoni ed è già un atteggiamento vitale di disponibilità verso il mondo. La pioggia, la nebbia, il buio, un freddo pesante gravano il più delle volte su ogni cosa, come una cappa che stringe lo spazio e appesantisce i movimenti. Chi parla, di colpo tace attonito e come smarrito, lo sguardo fisso davanti a sé, la bocca impastata, come se avesse perso il filo del discorso e le parole, a un tratto, fossero svanite nell'aria. Così è, soprattutto negli ultimi film, a partire da Perdizione, quando i tempi cominciano a dilatarsi e l'azione procede per blocchi, e ogni situazione è parte a sé e contiene l'espressione di un intero universo. Luoghi, che sembrano recinti, dove gli individui si ritrovano per scambiarsi lunghi e imbarazzanti silenzi, dove la musica è l'unico elemento che riesce a smuovere per qualche tempo l'atmosfera diffusa di sospetto, o luoghi dove vanno a rifugiarsi, in un ritorno a casa che ha il sapore della ritirata, come se il contatto con i propri simili sia motivo di grande, irritante stanchezza. Le case, con la macchina da presa che compie percorsi irregolari, ora avanzando ora indietreggiando, ora spostandosi da una stanza all'altra, ora girando attorno, quasi a voler insistere su quei microcosmi dove il singolo ha stabilito la sua tana e lì può tornare dopo che si è allontanato per incontrare solitudini simili alla sua. Queste case non accolgono con la sicurezza, domestica e familiare, delle loro mura e le pareti sono dei confini, oltre i quali inizia un universo inospitale; qui il personaggio si ferma, si accovaccia, si perde nella propria interiorità, si lecca le ferite, si nutre del proprio mutismo. Come il protagonista di Perdizione, e lo si vede subito, fin dalla prima sequenza. La teleferica, l'andirivieni dei vagoncini, un movimento sempre uguale, il rumore che si ripete senza sosta, qualcosa che ti prende il cervello, ossessionante ma ipnotico. Sembra un'inquadratura oggettiva, insistita forse per connotare la realtà che andremo a vedere; ma un lento movimento all'indietro scopre prima una finestra, poi ci porta dentro ad una casa e alla fine si sintonizza sullo sguardo del protagonista che, quei vagoncini, li sta osservando e ne è come catturato. A quel filo, forse, affida i suoi pensieri, ma questi gli ritornano indietro, inesorabili e ingombranti. La sequenza ha in sé già tutto il film: ogni possibilità di uscita è interdetta. La profondità esterna, con i carrelli che viaggiano lontani, è assorbita dall'inerzia dell'interno; quella finestra aperta è in realtà una cornice che disegna un movimento prospettico è al contempo comprime l'area del visibile. La costruzione spaziale é determinata, in questo caso, soprattutto dallo spostamento della macchina da presa che si svolge lentamente all'indietro e fa si che la sagoma dell'uomo, alla fine nasconda quasi del tutto la vista dell'esterno, segno di un'ostilità "assoluta" che non riserva all'individuo possibilità alcuna di salvezza. Di lì non ci si muove, Karrer non può mutare la sua condizione di prigioniero. La scena successiva è ancora più eloquente; lo specchio evoca lo sdoppiamento. Il protagonista affiderà alla menzogna il senso della propria soggettività, ma alla fine si ritroverà al punto di partenza, ancora più abbandonato a sé stesso, ancora più isolato, ancora più vittima dell'introversione e dell'incapacità di guardare oltre la violenza dell'inganno. Nelle case la macchina da presa compie lenti, a volte quasi impercettibili, spostamenti; uno spazio ridotto e attraversato come se fosse una grande pianura, e qui il paesaggio sono gli oggetti, i mobili, i volti, le persone. Talvolta la macchina carrella piano verso una finestra, quasi sentisse la necessità di distrarsi dalla sensazione di claustrofobia, di uscire dall'intreccio delle passioni e dei sentimenti crudeli, verso un esterno di luce e di respiro, ma finisce sempre per bloccarsi, per rimanere dentro, fissa su una tenda, su oggetti sparsi sul davanzale, come perplessa e impossibilitata a procedere oltre da un'opacità che ha l'aspetto banale di un tessuto o di una superficie appannata. Le finestre delle stanze sono elementi di separazione; di tanto in tanto sono osservatori per i personaggi, spaccature attraverso cui guardare rimanendo immobili, presi in interrogazioni sul mondo che sta loro davanti e con il quale scambiano correnti di crudeltà e insensatezza. Altre volte esse lasciano irrompere una luce che non promette nulla di buono, che fa presagire inevitabili sconfitte. C'e come uno scambio di senso tra l'interno e l'esterno, tra il dentro e il fuori, tra il chiuso e l'aperto: c'e nell'aria una sensazione di grande fatica, di impantanamento. Le persone si muovono in modo pesante, come se il fango che riempie le strade ricoprisse anche i pavimenti delle stanze e la vicinanza tra gli esseri rendesse ancora più difficile qualsiasi movimento; così ognuno se ne sta fermo, per un tempo che non sembra finire mai, semplicemente seduto su una sedia, appoggiato ad un tavolo, avvolto da vestiti logori e spessi. In Sátántangó la sequenza della casa del Dottore é di un'intensità lacerante. Quest'uomo grosso e ingombrante, che si sposta in equilibrio precario, al quale é sufficiente un piccolo gesto azzardato per cadere a terra, il volto gonfiato dall'alcool, trascorre la giornata seduto dietro ad una finestra, osservando con un binocolo quello che succede negli edifici di fronte. Egli annota meticolosamente, con precisione scientifica, i gesti e gli spostamenti delle sue "vittime"; ad ognuna riserva un quaderno, con il nome sulla copertina, mentre sorseggia bicchieri d'acquavite mista ad acqua. Ogni tanto si alza dalla sedia, muovendosi a stento, come se fosse obbligato a cercare ad ogni istante un baricentro che lo mantenga in piedi, e si dirige vero il bagno, un piccolo vano dove troneggia una water bianco; questo oggetto rimane nell'inquadratura anche quando riacquista la sua posizione seduta, segno di un tragitto che si ripete più volte nel corpo della giornata. Il volto del Dottore é incastrato nell'enorme massa del corpo; in questa fissità obbligata la sola cosa che può fare senza fatica é guardare di continuo quello che succede dall'altra parte del vetro, seguendo le mosse degli interpreti occasionali. Il suo é un occhio che riprende, che registra le storie degli altri, ignari protagonisti di un racconto che si costruisce con i passaggi davanti a quella specie di set naturale, dove a volte può succedere che l'intrigo si manifesti proprio tramite la presenza di un osservatore del quale nessuno sospetta la presenza. La casa del Dottore é una postazione, la finestra uno schermo, il binocolo uno zoom; in questo caso si crea un'identificazione tra il luogo e colui che ci vive, proprio perché gli altri non sanno di essere osservati e perché l'uomo, di contro, ha un ruolo attivo: il suo é un punto di vista sul mondo, una lettura della realtà che si concretizza nella scrittura. Egli si chiude in casa per vedere meglio, senza che l'interferenza con l'altro possa compromettere la visione oggettiva dei fatti. Il Dottore conosce ciò che lega gli altri personaggi, ma si limita a prenderne nota, come se la sua sola intenzione fosse di custodire una memoria che procede per accumulazioni; i quaderni sono come una piccola biblioteca dell'esistenza, frammenti che si sommano in ordine sparso, ma che potrebbero dar vita ad innumerevoli storie. Pesantemente adagiato sulla sedia, guarda davanti a sé e con le grosse mani sfoglia i quaderni per cercare i punti da cui ripartire per continuare le sue descrizioni; é inquadrato lateralmente, ora in primo piano ora in figura intera e, attraverso un corpo e un volto eccessivi, esprime una concentrazione che immobilizza tutto quanto lo circonda; anche gli oggetti, l'aria, la luce partecipano al "lavoro" dell'uomo. Non é il tempo a preoccuparlo; egli può stare ore e ore ad aspettare, a lasciare che la realtà dia i suoi frutti e questo può succedere quando meno te lo aspetti. Solo rimanendo in posizione, con la pazienza dello studioso, ma anche con la disponibilità affettuosa di chi é convinto che quanto gli sta davanti merita di essere guardato. Ogni ambiente é come un mondo a sé stante, con un suo sistema di forze e di pulsioni; il luogo, prima ancora di essere un contenitore, é il risultato di interazioni, di intrusioni, di rapporti di forza, di onde gravitazionali provocate dai sentimenti e dalle emozioni. E' vero, in Béla Tarr c'é una grande, grandissima cura della costruzione spaziale; una costruzione che prende forma nella progressione delle sequenze, nella loro consistenza temporale, nella scoperta delle forme e negli esisti compositivi determinati dalle definizioni dei quadri. Ma lo spazio non è solo il risultato di un modo particolare di orientare l'inquadratura o di utilizzare una conformazione precostituita; la sua connotazione é frutto di una concorrenza di situazioni, é l'espressione di una somma di presenze che determinano a loro volta l'ambiente dove sono collocate. Si può prendere ad esempio due tra le sequenze iniziali di Le armonie di Werckmeister: la prima viene dopo il ballo dei pianeti nel bar, quando il protagonista esce e va verso la casa di Eszter, la seconda é, quella relativa all'arrivo del grosso camion che trasporta la balena imbalsamata. In entrambi i casi c'é una strada e qualcuno o qualcosa che la percorre, ma diversa é la concezione spaziale e diversi sono i contenuti drammatici. Le due sequenze lavorano sulla profondità di campo, ma in direzioni opposte; nel primo caso la macchina da presa precede Jonas che cammina e all'inizio gli é relativamente vicino, con l'inquadratura che contiene la via e le case allineate lungo i bordi. Poi la macchina comincia a staccarsi dal personaggio, a distanziare le zone illuminate dai lampioni; le figure diventano sempre più piccole fino ad occupare una piccola porzione al centro in alto, mentre tutt'attorno si forma una vasta macchia nera. Qui il punto di vista mobile, ma frontale e in oggettiva, parte dalla presenza del personaggio e man mano lo mette in relazione con la realtà circostante, fino a costringerle entrambe entro un contesto drammatico che le trascende. La sagoma isolata del ragazzo, l'intensità dei contrasti, la concentrazione della luce, l'allungarsi delle ombre, la dilatazione del buio, la riduzione della parte visibile, il predominio progressivo della notte scandiscono la temporanea ritirata del mondo, l'incombere del nulla. Attorno a quella figura fattasi lontanissima sembra che tutto sia stato cancellato; basterebbe pochissimo a far sparire anche quella piccola sopravvivenza. Nel secondo caso l'inquadratura é fissa, con il punto di fuga che cade sul lato sinistro, dove termina la prospettiva delle case allineate lungo la strada. Un'ombra avanza sulle facciate illuminate dai lampioni, mentre si sente il rumore di un veicolo che appare sul fondo. Un trattore avanza lentamente, trascinandosi dietro un enorme cassone in lamiera che si avvicina alla macchina da presa, la quale effettua una lenta panoramica a seguire il movimento dello strano convoglio. Il rimorchio da addirittura l'impressione di andare a sbattere contro l'osservatore, quando le pareti ne riempiono il campo visivo e sembrano anche non finire mai, tanto é grande quella specie di enorme scatolone. E poi si scopre che la lunga sequenza non é altro che la soggettiva di Jonas, ora ripreso in primo piano, fermo a guardare quell'oggetto che sta invadendo il villaggio. Tutto qui concorre a dare la sensazione che sta accadendo qualcosa di sconvolgente, dopodiché la vita del villaggio non sarà più quella di prima; la creatura "mostruosa" – ma solo per lo spettatore incantato - che sta arrivando non se ne andrà via facilmente e rimarrà a lungo con il suo carico di inquietudini e di attese angosciose. Il movimento del mezzo ha fatto si che la via si allungasse, che lo sforzo per portare il carico al centro della piazza apparisse quasi disumano e ciò lascia presagire che ci vorrà tempo, tanto tempo perché l'animale possa riprendere la via del ritorno. Le linee che informano lo spazio diventano a loro volta conduttrici di senso: nei casi qui richiamati la prospettiva funziona come percorso lungo il quale si costruiscono il racconto e la rappresentazione. L'occhio di Bela Tarr non é mai contemplativo; le geometrie si disegnano tra le rose, dentro la materia, nelle forme lasciate dall'opera dell'uomo. Il punto di vista é parte anch'esso di un sistema aggrovigliato di campi, di piani che si susseguono e si intersecano e l'occhio sembra mettersi dove più forte é la possibilità espressiva. Così pure quando si muove, con una lentezza che in realtà é elaborazione implacabile di una messa in scena che fa deflagrare le contorsioni dell'essere. Ogni angolo, ogni parete, ogni barriera vengono aggirate dalla macchina da presa, come se dietro di essi si potessero aprire chissà quali mondi, mentre appare l'ennesimo riflesso della disperazione e del degrado. A volte qualche personaggio si fa avanti, forse per portare qualcosa di nuovo, forse per accontentare un'attesa diffusa nell'aria, ma è sempre un'illusione, perché niente cambierà, ed ogni gesto, ogni sguardo, le membra tutte ripiegheranno spossate prima ancora di aver mostrato qualche sussulto vitale. Dentro lo spazio ognuno si posiziona, quasi che proprio lì fosse destinato a finire, e quando si mette a raccontare, la sua é la voce del delirio, quando non é la formulazione di una profezia che si perde nel silenzio. Nei rari momenti di ebbrezza, la scena acquista un tenore teatrale, negli interni le pareti si trasformano in quinte, le porte in cornici che distanziano lo sguardo, pannelli intrisi di perplessità e disincanto. II ballo, che ricorre nei film di Béla Tarr, è fatto di pochi gesti ripetuti, quasi meccanici: qualcuno si muove da solo, forse ubriaco, forse c'e una strana solidarietà in questi momenti e a volte un affollamento inusuale; la gente é come inebetita e può capitare che alla fine, dopo che tutti se ne sono andati, rimane uno che batte i piedi per terra, sul pavimento allagato, come un bambino incosciente, del tutto rincretinito. E' un turbinio transitorio, che si placa bruscamente, lasciando sul terreno i resti di una spensieratezza ingolfata, con quelle luci artificiali che nessuno ha pensato di spegnere, fastidiose e aggettanti sulla sporcizia e lo squallore. II bianco che domina gli interni e fatto di una luce che disturba l'occhio, come quando si entra, dal buio, in un locale troppo illuminato ci vuole un po' ad abituarsi a quei riflessi metallici, a quei grigi cosi "inospitali". In Tarr ogni presenza, dalla più complessa alla più semplice, pronuncia la qualità del reale; può essere una complessità di linee, una discarica di forme, o più semplicemente un graffio sul muro, una parete scrostata, un vetro appannato, una superficie bagnata dalla pioggia, un riflesso o una flebile luce dietro una finestra. Immagini che scivolano da un eccesso di concretezza ad una residualità astratta. Poche macchie, qualche rivolo di pioggia, una screpolatura, lacerti di una compostezza trascorsa, ma quanta disperazione, quanto affanno, quanti strappi sanguinosi in quei pochi tratti: dettagli che incidono la mente, limiti oltre i quali ogni visione non é più possibile, ogni messa a fuoco assolutamente illusoria. Nell'immagine di Béla Tarr ogni oggetto, un volto, una stanza, un edificio, una pianura, sono come degli immensi paesaggi, all'interno dei quali l'occhio si sposta, penetra, ritorna sui suoi passi, costruisce insomma un percorso di senso, una narrazione che si definisce a partire da scelte puramente spaziali. La faccia di un uomo, con le infinite irregolarità e le deformazioni del tempo, con i contrassegni del desiderio e dell'attesa, non differisce dal muro fatiscente e scrostato; entrambi possono, riescono a "raccontare" la loro storia, a parlare il linguaggio della delusione e della deriva, in fondo la natura dell'essere. Ancora in Le armonie di Werckmeister c'é una sequenza di una forza sovrumana: un lunghissimo primo piano di Eszter e Jonas che camminano uno di fianco all'altro. I volti hanno una precisione e una solidità düreriane, nella tensione che vi aleggia c'é un forte senso di attesa e di paura per l'incertezza che cresce. I due volti fendono l'aria e si dirigono verso l'ignoto con la "decisione" dello smarrimento e con l'incoscienza di chi va incontro alla propria sconfitta. In questa sequenza c'é il significato dell'esistenza, con il suo annaspare ma anche il suo bisogno di risalire, di trascendere l'inerzia dell'essere e della coscienza; c'é la volontà, forse inconsapevole, forse istintiva, di andare verso la prova, quand'anche essa sia l'anticamera del baratro. E questo, forse, uno dei pochi momenti di orgoglio nel cinema di Tarr; un orgoglio che é nella struttura profonda dell'uomo, una sorta di richiamo a resistere, a reagire, a guardare in faccia la paura, prima che la forza del mondo abbia di nuovo il sopravvento e non resti altro che fare retromarcia, attuando quel ritorno in sé ed a sé nell'intimità dello sconforto e dell'introversione. Qui si mostra quell'atteggiamento perlustrativo cui si accennava prima: ogni sequenza é un'indagine visiva, ogni elemento mostrato é una mappa di ciò che é, di come si costituisce nel corso di un tempo lacerato che nasconde l'origine e paralizza il futuro, come una ragnatela intricata che tiene le cose e gli individui sotto un potere che non lascia scampo, che ha contaminato anche i sentimenti e le emozioni, che ha abituato tutti ad aver timore della rivolta. Sotto la volta del cielo la sola scelta riservata agli umani é l'intrigo, il complotto, la vendetta, la ritorsione, la delazione, in una dimensione assolutamente orizzontale, secondo tragitti che si avviluppano, si contorcono su se stessi, si annodano nella viltà e nella sporcizia. In Perdizione Karrer attraversa le vie, ma in realtà attraversa i territori dell'abiezione, disseminati di detriti e di pozzanghere, popolati da cani che rovistano tra i rifiuti e che sguazzano nel fango: le stazioni terrene di una via crucis che lo precipiterà nella melma, tra i detriti, a latrare come un cane rabbioso; Tutto é cosi "coricato" in questo film, ogni linea parallela al terreno é sottomessa a strisce di cielo opprimente; ovunque si fa sentire una forza di gravità che preclude qualsiasi slancio, qualsiasi atto di redenzione. In questa guerra totale non ci sono vie di fuga, oltre un orizzonte che in realtà é un limite invalicabile, sopra una superficie terribilmente piatta, che annulla ogni "naturale" illusione. Quella di Béla Tarr é una visione tragica del mondo, nel significato classico della parola: gli esseri e i luoghi sono come prigionieri di un destino ineluttabile, che si mostra nella miseria diffusa, che non risparmia nulla e nessuno. Ma é una tragedia che emana dalla terra, tra nebbie che sembrano miasmi, tra le pozzanghere e la polvere. Sopra, non c'e divinità alla quale si é portata disobbedienza e alla quale si rivolge invocazione, ma un silenzio assordante e una distanza insostenibile. La macchina da presa va alla ricerca delle tracce di questa condizione, nei luoghi dove il tempo sembra essersi fermato, tra oggetti abbandonati per sempre, sui corpi che ormai appaiono chiusi in un'immobilità senza respiro, tra i rifiuti di una realtà chiusa alla speranza. II regista ungherese legge, ritrova il significato tragico dell'essere in ogni piega della materia. Egli la spoglia di ogni ornamento retorico, ne ritrae la pesantezza e la grinzosità, ne legge la decadenza e il degrado. II bianco e nero aumenta la consistenza delle cose e i segni del lavoro del tempo su di esse; le fa stare insieme, le une con le altre, come rovine sprofondate nella terra e nel fango, ai quali ormai appartengono e ai quali hanno consegnato le loro forme. Quello che appare porta il peso della propria storia, ma é come se la realtà sia rimasta ferma, immobile ad aspettare il sopraggiungere di qualche cambiamento. Come se essa si fosse discostata dalla linea del tempo ed ora giacesse dismessa, buona solo per coloro che da sempre la abitano e che vivono all'interno dei suoi orizzonti, senza mai pensare ad un altrove, un luogo, anche immaginario, dove riporre di nascosto qualche ambizione di rinascita. In Béla Tarr lo spazio, la materia si mangiano il tempo, cosi come i pochi gesti e rumori ne scandiscono la decantazione. Gli illusi, che, in Sátántangó, si ritrovano nella grande casa vuota e aspettano notizie sul loro futuro alla fine si addormentano, mentre la macchina da presa compie ripetuti giri sopra di loro e le poche cose che si sono tirati dietro. Qui il dopo non c'e più; sono i corpi addormentati, sono gli oggetti che congelano l'attesa, che lasciano intendere la capitolazione. Il Dottore, questa figura straordinaria del cinema di Tarr e della cultura occidentale, si incarica di calare definitivamente il sipario sui personaggi che per lui non esistono più; in una sequenza carica di lancinante malinconia, oscura la finestra con delle assi di legno che inchioda sovrapposte, fino a che un buio profondo chiude ogni spiraglio di luce. Ultimi colpi di martello e quindi il rintocco delle campane, remoto e indicibile. Attorno a quest'uomo è ruotato il film, portandosi dietro anche il tempo: quello però del racconto, costruito sulla diversità e la dislocazione del punto di vista, sulla rotazione di visioni differenti. Tocca a lui, persona scontrosa ma cosi fisicamente umana, mettere la parola fine, con gesti che suggeriscono la pietà, un ritrarsi a sua volta nell'ombra, nel silenzio e nella cecità. In questo modo finiscono i film di Béla Tarr, con la realtà si affloscia, come la balena di Le armonie di Werckmeister, stesa a terra come un pacco sfasciato, malconcia, con l'occhio che fissa il disastro e sembra chiedersi come mai é capitata fin lì, ma rassegnata ad assistere alla propria consumazione. |
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